Associazione Progetto Accoglienza | I beni comuni – laboratorio antropologico
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I beni comuni – laboratorio antropologico

I beni comuni – laboratorio antropologico

a cura di Pierpaolo di Carlo

realizzato nell’ambito del progetto Mio, tuo, nostro. Percorso interculturale verso un’idea condivisa di bene comune finanziato grazie al bando Giovani e Beni Comuni del Cesvot

Culture diverse producono differenti concezioni di cosa deve essere considerato bene comune e cosa può, con opportuni sforzi, diventarlo.
Il laboratorio che ha coinvolto 13 giovani, 7 migranti provenienti da Mali, Burkina Faso, Ghana e Nigeria e 6 italiani, ha avuto lo scopo di stimolare i partecipanti a riflettere sul proprio passato e sulle proprie esperienze, condividendo poi tra loro verbalmente memorie, immagini e possibilità.
Qui di seguito elenco alcuni dei punti più interessanti emersi durante il laboratorio.

La terra e l’organizzazione sociopolitica

In Italia, così come in molti altri Paesi occidentali, la nozione di proprietà privata è ormai pienamente affermata, difficilmente discutibile, soprattutto per i più giovani. L’unica alternativa possibile per molti di noi è racchiusa nell’immagine del parco nazionale, o in quella della fascia di spiaggia più prossima al mare: proprietà demaniale, non acquistabile da parte di individui o aziende, protetta proprio perché “bene comune”.
Dalle testimonianze dei giovani nigeriani, maliani e togolesi, è emerso quanto questo paradigma sia tutt’altro che universale. Ad esempio, è stato ricordato che in questi Paesi africani, soprattutto in ambito rurale e semi-rurale, l’organizzazione tradizionale in “chiefdoms” o “chefferies” – laddove ogni villaggio è guidato da un capo-villaggio e da un gruppo di uomini rappresentanti delle altre famiglie del villaggio – ha creato situazioni del tutto diverse. Il capo è nominalmente il proprietario di tutta la terra all’interno dei confini del chiefdom e può disporne in
totale libertà (un po’ come la Regina del Regno Unito!). Nei fatti questo significa che il capo è garante dell’utilizzo delle terre nell’interesse della comunità. In passato, questo ha fatto sì che il capo-villaggio attribuisse titoli di usufrutto dei terreni alle famiglie migranti che facevano richiesta di poter risiedere all’interno del chiefdom, un’eventualità tutt’altro che rara nella storia di questi Paesi. I partecipanti hanno riportato però che, dal momento dell’affermazione dell’economia monetaria negli ultimi decenni, i capi-villaggio hanno subito pressioni inaudite fino ad allora perché i terreni e i diritti di sfruttamento venissero ceduti ad imprese orientate al profitto privato, del tutto slegato dall’interesse della comunità. A questo riguardo è stato molto importante il ricordo di alcuni partecipanti relativo ad iniziative comunitarie finalizzate al contrasto di queste tendenze centrifughe, individualiste. Gli abitanti di un chiefdom si autorganizzano e fanno pressione a loro volta sui capi-villaggio perché le loro decisioni non finiscano per creare situazioni di conflitto all’interno della comunità di villaggio.

I luoghi delle decisioni

Anche il Parlamento, così come la libertà di espressione ed altri diritti acquisiti sui quali raramente riflettiamo, possono essere definiti “beni comuni”. Il caso delle comunità locali africane impegnate nell’autorganizzarsi per poter interagire a livello politico con i detentori del potere locale ci ha fatto riflettere sui luoghi nei quali si materializzano questi processi di dialogo.
Da noi, come già detto, si tratta di edifici come il Parlamento, su scala nazionale, o il consiglio comunale, su scala locale. Nei Paesi africani rappresentati dai partecipanti, gli abitanti di un villaggio si ritrovano spesso in luoghi pubblici all’aperto, piazze all’interno dell’abitato. Ricordare la concezione che i locali hanno di questi luoghi è stato un momento di grande interesse per tutti i partecipanti: luoghi come questi sono preziosi per la comunità e la gestione del loro decoro (pulizie periodiche o al termine di un evento comunitario) è demandata a sottogruppi di giovani organizzati gerarchicamente. È quindi più che naturale – quantomeno per chi proviene da un Paese dell’Africa occidentale – che siano i più giovani ad occuparsi della pulizia dei luoghi pubblici nei quali si coltiva la vita politica “diffusa”. Le diverse memorie che sono state condivise al riguardo hanno aperto molteplici finestre sul confronto tra come lo spazio pubblico venga vissuto “da noi” e “da loro”. Alcuni momenti di questo dialogo interculturale hanno dato modo ai partecipanti di definire in modo più preciso e concreto gli obiettivi di un’altra attività, da realizzare nell’ambito di questo stesso progetto in cui si dovrà progettare e realizzare, presso un’area pubblica a Borgo S. Lorenzo uno spazio di socialità condivisa, libera e generativa di relazioni interculturali positive.

Pierpaolo Di Carlo

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